Sulla testa di ogni giornalista pende oggi la spada di Damocle di una querela per diffamazione. Lui – e il suo giornale – rischia la bancarotta, chi querela assolutamente niente. Anche se la denuncia si rivela infondata, infatti, è quasi impossibile ottenere un risarcimento. Risultato: i giornalisti scrivono sempre di meno e sempre più politically correct, le querele per diffamazione non si contano e i danni morali liquidati raggiungono cifre sbalorditive. Con buona pace del pluralismo e della libertà di stampa.
1. “Ho pensato al mio ultimo romanzo, quello che avrebbe dovuto essere il primo. La prima versione è del gennaio 1940, l’ultima del marzo 1999 e nel frattempo ho prodotto una mezza dozzina di stesure diverse … Il mio compito durato cinquantanove anni è finito. C’è stato il nostro crimine – di Lola, di Marshall e il mio -, il crimine che a partire dalla seconda versione, ho cercato di descrivere. Ho ritenuto mio dovere non nascondere nulla – i nomi, i luoghi, le circostanze esatte, – ho riferito tutto come se si trattasse di un archivio storico. In termini legali, tuttavia, così mi è stato detto da vari editori nel corso degli anni, le mie memorie non potranno mai essere pubblicate mentre sono ancora vivi i complici del mio crimine. Si è liberi solo di diffamare se stessi e i morti. Dalla fine degli anni quaranta, i coniugi Marshall si sono dati un gran da fare a difendere in Tribunale il loro buon nome con una ferocia che non badava a spese. Non avrebbero difficoltà a mandare in rovina una casa editrice data la loro disponibilità finanziaria. Mi è stato dato il più ovvio dei suggerimenti: sposta, cambia, trasforma … Spostati fin dove è necessario pianta le tende pochi centimetri più in là, fuori dalla portata della legge. Solo che nessuno conosce le stanze precise finché non è stata emessa una sentenza” (I. Mc Ewan, “Espiazione”, Einaudi, 2002, pag. 378).
La conclusione del romanzo esprime con desolato sentimento il rapporto irrisolto tra scrittore (o giornalista) ed il reato di diffamazione, evidenziandone i policromi risvolti: l’imprevedibilità del giudizio sul reato (che in fondo risiede nella mente del Giudice), l’inutilità di accorgimenti prudenti, il temuto danno finanziario. Tre aspetti ampiamente sondati che hanno assunto dimensioni talvolta parossistiche nella più recente produzione giurisprudenziale.
La connotazione illecita della diffamazione, come lesione dell’onore e della reputazione dell’individuo, è una costante negli ordinamenti e nella storia; con qualche variazione. I sistemi di common law la valutano illecito civile, gli ordinamenti continentali la qualificano a titolo penale.
In Italia, il ricorso alla giustizia ha assunto negli ultimi decenni dimensioni imponenti, ignote al passato, quando il codice cavalleresco disciplinava l’autodifesa, in uso al punto che il legislatore rese la sfida a duello reato.
Si trapassa da una stagione in cui i processi sono ridotti, per giungere alle attuali dimensioni del fenomeno di azioni civili o penali largamente intraprese da tutti i ceti. Si contano procedimenti per brevi trafiletti di cronaca giudiziaria, che interessano persone al più sconosciute, come imponenti azioni intraprese da personaggi di rilievo nella vita finanziaria, economica e politica.
Un progressivo e lento movimento ha reso così la diffamazione un fenomeno di rilievo economico non indifferente: sta all’offeso decidere se rivolgersi soltanto al Giudice civile per ottenere esclusivamente il risarcimento del presunto danno, ovvero proporre anche querela per chiedere contemporaneamente la condanna alla pena ed i danni. Nessuno più, comunque, mostra indifferenza all’aspetto finanziario dell’azione.
2. Nella scorsa legislatura sono stati presentati, da tutte le parti politiche, progetti di riforma del reato di diffamazione, poi abbandonati. Segno di un comune malessere od insoddisfazione, anche se le direttrici dei diversi progetti, spesso erano contrapposte (dalla depenalizzazione, alla omessa rettifica come condizione per proporre querela, alla fissazione di un tetto massimo per il risarcimento del danno morale, al potere del Giudice di infliggere anche sanzioni ora disciplinari – come la sospensione dell’albo – nei confronti del giornalista).
Le questioni, a mio parere, presentano natura sia normativa che interpretativa; vanno in altri termini, risolte con pochi interventi di legge e, prevalentemente, con una diversa coscienza dei giudizi correlati alla diffamazione.
Al di là dell’apparente banalità del testo della norma incriminatrice – “chiunque offende l’onore e la reputazione altrui” – l’interpretazione del fatto è fortemente connotata da elementi valutativi e, con qualche lata analogia con il comune senso del pudore, deve tenere conto delle modifiche intervenute nel tessuto sociale e nel lessico corrente.
L’onere incombe sul Giudice ed è particolarmente gravoso, si tratta di interpretare e valutare il linguaggio, stabilire se l’offesa sussista o meno. E’ vero che le componenti del reato di natura normativa e sociale (tali i concetti di onore e reputazione) sono ritenute gli organi respiratori del sistema penale, in quanto ne consentono l’adeguamento al comune sentire. Ciò comporta, tuttavia, l’inserzione di un circolo virtuoso tra realtà e giudizio. Una presa di coscienza alla quale i Tribunali sono talvolta pervenuti, esemplare la disputa sul valore offensivo del termine “omosessuale”.
Vi sono espressioni che indubbiamente – e nessuno lo negherebbe – hanno il potenziale di offendere un individuo, così l’attribuzione di un atto di corruzione, di un furto, di un illecito disciplinare. Tali accuse possono condensarsi in un semplice attributo generico: “corrotto”, o manifestarsi nella dettagliata descrizione dell’attività attribuita, nell’indicazione di un procedimento in corso per il reato ed assumere, dunque, veste diversa.
V’è da riflettere, però, se con l’involuzione volgare assunta dal linguaggio comune gli insulti più banali (cretino, deficiente, mascalzone, pennivendolo, tagliaborse) abbiano conservato valenza offensiva. Talmente correnti ed in uso da aver perso un reale potenziale offensivo. La maleducazione è divenuta corrente e tollerata, si è trasferita dalla strada, nelle aule parlamentari, nei dibattiti televisivi, più che sulla stampa (data l’asprezza del dibattito politico, che come segnalato da un recente studio è ormai esclusivamente dedicato alle opinioni, con indifferenza assoluta ai fatti sottostanti); all’improvviso muta forma e può essere considerato delitto.
Forse sarebbe opportuno accettare lo statu quo e degradare, in via interpretativa, tale forma del linguaggio corrente, senza necessità di spendere le risorse del processo penale o civile per sanzionare soltanto il degrado comune dell’uso linguistico e dell’educazione.
Per giustificare espressioni consimili si pretendono ora metafore eleganti, forme ragionate di critica che soltanto con maggiore finezza raggiungono il medesimo risultato. Appare un infingimento: l’insulto più banale deve essere mascherato, edulcorato nell’apparenza attraverso il ricorso a perifrasi che non mutano l’effetto.
In questo modo il riconoscimento del reato diventa un giudizio sull’abilità retorica, premiata.
Va, tuttavia, rammentato che, non poche volte, la Corte di Cassazione ha giustificato quelle che denomina espressioni “aspre” in ambito politico, proprio riferendosi all’indifferenza sopravvenuta per i toni assunti dal dibattito e dalle polemiche correnti. Non è intervenuta, però, escludendo il reato, ma sostenendo soltanto che la critica politica poteva tradursi anche in insulti, seppure i confini del tollerabile restano vaghi ed indefiniti, dipendenti dalla sensibilità del giudicante.
Prendere atto del corrente uso linguistico significherebbe escludere l’offesa e, dunque, il reato senza ricorrere alla causa di giustificazione. Travasare in altri termini nelle aule l’uso incorso, il diritto vivente, per quanto maleducato possa apparire, ma non più degno della sanzione penale.
Il passaggio dall’impermeabilizzazione alla non punibilità sarebbe determinato dal travaso nel giudizio della prassi invalsa. Il novero degli insulti che si risolvono in attributi semplici è, però, variegato comprende gli epiteti infantili, e la sintesi di gravi accuse.
A mio parere, per assumere valenza illecita, i semplici attributi devono presentare nel testo un significato tecnico preciso: Killer, ad esempio è certamente un’offesa se allude all’autore di un omicidio, ma se è usata in luogo dell’ammesso termine giustizialista perde potenziale offensivo. “Corrotto” è termine offensivo se è accusa, in senso, tecnico del corrispondente reato, non quando alluda all’atteggiamento esasperatamente compromissorio del privato. “Lager”, secondo una sentenza, se tradotto lessicalmente (“campo o deposito”, “luogo di raccolta”) può definire in forma lecita un ospizio.
Esclusa ogni discussione, non v’è dubbio che dove si intacchi la sfera dell’onestà e del lecito agire la diffamazione sussista, ma dove l’espressione, sia insignificante e si risolva in una critica, pur con toni aggressivi, vada esclusa.
Inutile introdurre espedienti normativi e richiedere, per questi ultimi casi, che la rettifica paralizzi l’azione; si raggiungerebbe un effetto paradosso: la ripetizione dell’insulto (“non è un cretino”) seppur in forma opportunisticamente negativa. Effetto sgradito alla vittima.
3. Diverso il discorso da sviluppare per l’attribuzione d’illeciti, di reati di comportamenti riprovevoli che in effetti sono idonei a lambire e, talvolta, a travolgere la fama di un individuo, soprattutto se ripetutamente rivolti sulla stampa o sulla televisione.
Qui entrano in gioco le cause di giustificazione, le più comuni e ricorrenti l’esercizio del diritto di cronaca e di critica. Sono istituti che operano su un reato esistente (la diffamazione) escludendone la punibilità. Una notevole imprevedibilità delle decisioni si annida anche in questo ambito del giudizio sul reato.
Cronaca e critica sono scriminanti di creazione giurisprudenziale, frutto di una singolare armonia e concordanza tra dottrina e giurisprudenza – con rari contrasti – stravagante rispetto all’ordinamento italiano che sconta un’ineludibile distonia tra i protagonisti dell’interpretazione normativa.
La cronaca e i suoi limiti (la triade assurta a dogma: verità del fatto, interesse pubblico e continenza); la verità intesa in senso assoluto, storico ed obiettivo (quasi che Popper non sia mai esistito), l’ammissione che l’errore sulla verità del fatto escluda il dolo della diffamazione e la contemporanea abrogazione implicita di parte della norma – per questa sola materia – che prevede l’efficacia dell’errore colposo se il reato non è punito a titolo colposo (e così non è per la diffamazione); l’adeguamento della nozione di verità in particolari materie (cronaca giudiziaria e parlamentare richiedono la sola corrispondenza della notizia all’atto, espunta la pretesa di verità assoluta); la non punibilità dell’intervistatore equidistante; la conquistata autonomia della critica (l’opinione non può essere valutata secondo il parametro verità/falsità) sono tesi dottrinarie ed enunciati di sentenze assurte a regulae juris.
Il processo di elaborazione è stato lungo ed involuzioni sono talora emerse; per raggiungere maturità sono occorsi, dall’entrata in vigore della Costituzione, più di quarant’anni, con un movimento ondivago non estraneo agli altalenanti rapporti tra stampa e magistratura.
Anche in questo settore margini valutativi, talvolta di insondabile ampiezza, restano al Giudice nella prassi applicativa. La stessa notizia può essere giustificata a Torino e non a Roma, in nome del medesimo principio di diritto.
Inutile o irrealistico imporre correttivi per legge; l’imprevedibilità appartiene alla fase giudicante. In epoche di conflittualità sociale la diffamazione diviene uno strumento per fare politica: perseguire i giornalisti avversi, aggredire gli avversari.
Il Giudice è allora chiamato a dirimere: il nucleo del dibattito politico, la legittimità di un candidato, le capacità di un pubblico ufficiale a rivestire l’incarico e, per contrappunto, la professionalità del cronista o del critico.
Per giustificare l’offesa occorrono prove certe, documenti e rari testimoni. Il giornalismo d’inchiesta è in via di scomparsa. Quali le cause? Il degrado dei giornalisti od i rischi processuali che affronta chi percorre territori non ancora sondati dai Giudici. Ricordo che in una grande città, alla fine degli anni ottanta, una redazione denunciava con articoli dettagliati i politici imperanti. Ahimé, la prova che allora potevano fornire non assumeva mai la dimensione dell’assoluta ed obiettiva verità richieste dalla giurisprudenza. In primo grado ne sortirono alcune condanne. Nel frattempo, fiorì tangentopoli e gli articoli trovarono riscontro nelle indagini della magistratura che disvelarono la realtà dei fenomeni illeciti denunciati. Le prove così ottenute consentirono le assoluzioni in appello o gli annullamenti in Cassazione.
Si associano oggi due fenomeni: da un canto una maggiore fallibilità dei giornalisti rispetto ad un tempo, dovuta alla necessità imposte dai giornali, trasformati in imprese editoriali, di produrre centinaia di pagine nell’arco di una giornata ed allora tempi ristretti impediscono controlli accurati; d’altro canto una propensione querelomane.
La suscettibilità dell’individuo, la rilevanza dell’immagine nell’era moderna conducono anche il colpevole a proporre azione, magari per una virgola od una svista neutra in un articolo altrimenti ineccepibile.
L’azione, uno strumento prima cautamente usato oggi è di abuso comune. E’ sufficiente comparare il numero delle querele proposte a quello delle assoluzioni che si attestano circa sul sessanta – settanta per cento.
Altro fenomeno correlato alla formazione giurisprudenziale ed all’assetto della diffamazione è che dall’assoluzione non scaturiscono procedimenti per calunnia in danno dell’improvvido querelante. E’ sufficiente, infatti, comporre una valida querela che affermi l’esistenza di un’offesa e tacere se il fatto sia vero o da ritenersi tale, perchè non si proceda a carico dell’incolpante per calunnia.
Decrescono così i rischi di una reazione giudiziaria forte alla querela infondata. Diminuiscono i deterrenti e risulta minorata la difesa preventiva dalle azioni contro stampa e televisione.
4. Un aspetto cruciale per la valenza socio-politica della diffamazione consiste nella liquidazione del danno da reato. Il fenomeno ha subito un’estensione crescente nelle dimensioni, sino a mettere in pericolo, in taluni casi, la stessa libertà di stampa. Anche qui la transizione è lenta, dall’epoca in cui il danno assumeva parte pressoché inconsistente della decisione richiesta, (veniva domandata una lira simbolica, a sottolineare l’interesse esclusivamente morale dell’offeso ed il disprezzo per una conversione in denaro della propria immagine), all’attuale mercificazione dell’onore. Si assiste ad un’inversione di tendenza; azioni per migliaia o milioni di euro e risarcimenti per centinaia di migliaia di euro; raro ormai che le cifre liquidate si attestino sotto la decina.
L’habitus di fissare risarcimenti di entità notevole si è andato espandendo, sino a rappresentare ormai una consolidata prassi giudiziaria.
La problematica connessa è alquanto delicata. Insito nelle decisioni sul danno è un notevole margine discrezionale, se non di arbitrio, del Giudice, correlato ad una peculiarità del reato: tutela l’onore e la diffamazione, beni immateriali ed è raro che gli attori dei processi civili o le parti civili in quelli penali dimostrino che dal reato è conseguito casualmente un danno di natura patrimoniale. Quando vi riescono, l’opera di commisurazione del danno risarcibile, attribuita al Giudice, è semplice e consiste in un calcolo pressoché matematico essendovi corrispondenza fenomenica tra la perdita subita od il mancato guadagno e la somma da risarcire. Ma si tratta di casi rari. Statisticamente la massima parte (se non esclusiva) dei danni da diffamazione appartengono alla classe dei c.d. danni morali. Una categoria di danno che non trova un diretto riflesso nella realtà economica e che può essere quantificata – con una formula invalsa nelle sentenze – in via equitativa. Tentativi di fissare criteri nell’uso del potere discrezionale di commisurare il danno non hanno sortito effetti apprezzabili per la certezza del diritto e il principio di determinatezza.
Va rimarcato, infatti, che le regole individuate (gravità dell’offesa, diffusione dello stampato) coincidono con quelle delineate dall’art. 12 della legge sulla stampa per provvedere alla quantificazione di un istituto speciale, la riparazione pecuniaria, valido soltanto per la diffamazione.
Insomma, già il legislatore del 1948 si era posto il problema della remunerazione del danno da diffamazione ed aveva apprestato una forma risarcitoria eccezionale, dettando i criteri per la quantificazione. Scarse le riflessioni su questo istituto; mi pare tuttavia dubbia la sua necessità; non si intende, infatti, per qual ragione la persona offesa dalla diffamazione dovrebbe godere di un privilegio non concesso alle vittime di più gravi reati, come omicidio o stragi. Se la preoccupazione del legislatore era collegata alla difficoltà di compensare il danno subito attraverso le ordinarie forme risarcitorie, occorre constatare che tale esigenza è stata ormai superata in sede giudiziaria attraverso il ricorso al danno morale.
Paradossalmente si assiste oggi alla proliferazione delle forme di risarcimento, ma soprattutto al ricorso ai medesimi criteri per liquidare somme a diverso titolo (riparazione e danno morale). Una duplicazione decisamente superflua, un’enfasi inutile.
Nella cornice delineatasi, il risarcimento del danno da diffamazione ha assunto proporzioni che talora risultano patologiche, sia per l’imprevedibilità dell’ammontare, che per la sua (talvolta) ingente entità.
Da sfondo alla prassi invalsa, un’esasperata tutela del bene dell’onore e forse l’implicita convinzione che i media costituiscano una potere forte, dotato di infinite disponibilità economiche.
L’impostazione politico criminale non corrisponde alla realtà: esistono testate o reti televisive di modesta portata, dotate di mezzi ridotti, cui talvolta si contrappongono (in veste di diffamati) potentati finanziari, industriali o politici. Sicché il rapporto fra poteri, cui pare riferirsi la giurisprudenza, è ribaltato, con l’ulteriore problematica: che in questi casi la sola difesa nel processo subisce le conseguenze della sperequazione nelle forze economiche antagoniste. Eppure, è raro rinvenire simili constatazioni nelle sentenze che per lo più rifuggono dalla valutazione della importanza della testata all’atto della liquidazione del danno.
La valutazione delle rispettive capacità economiche (per le testate, peraltro, collegate alla loro diffusione) dovrebbe costituire un parametro valutativo, un corollario obbligato nella valutazione del danno. Appare, infatti, ovvio che l’offesa rivolta ad una potente industria, ad una multinazionale abbia un’idoneità minima ad incidere sulla sua produzione di reddito, mentre, per contro, la condanna ad un risarcimento ingente potrebbe potenzialmente distruggere un editore.
Eppure dalla commisurazione del danno è assente ogni considerazione del potere (economico o politico) della vittima, pure rilevante, perché corrisponde alla superiore o minore intangibilità della sua reputazione.
Negli Stati Uniti, dove per la diffamazione è prevista la condanna ai c.d. punitive damages (risarcimenti meramente sanzionatori e destituiti di alcun collegamento con l’effetto fenomenico della diffamazione) si era avanzato il dubbio che tale forma di danni fosse potenzialmente contraria alla libertà di stampa, potendo condurre al fallimento ed alla chiusura di una rete televisiva o di una testata giornalistica. Non v’è dubbio che l’istituto del danno morale, preordinato (nell’impostazione originaria) a risarcire la sofferenza patita dalla vittima, abbia, in materia di diffamazione, subito una mutazione genetica e, per le ragioni enunciate, sia andato progressivamente acquistando la natura di pena accessoria (automatica conseguenza) della condanna per diffamazione. Con un’aggravante: che non è prevista, come per tutte le sanzioni criminali, la soglia massima del suo ammontare. Elevata indeterminatezza avvolge, perciò, la materia con grave pregiudizio per la certezza del diritto e la stessa libertà di stampa.
Un effetto deterrente si collega, infatti, ai risarcimenti milionari, una sorta di preoccupazione a pubblicare notizie che sarebbero assistite dal diritto di cronaca o di critica, per il timore delle conseguenze giudiziarie, con conseguente e necessitato impoverimento dell’informazione.
L’attuale situazione si mostra ancor più sperequata per due profili: il Tribunale può condannare al danno, totale o parziale (provvisionale), con decisioni immediatamente esecutive. In altri termini, il condannato deve pagare all’emissione della sentenza di primo grado. Tuttavia, se in seguito il condannato viene assolto, non è prevista una forma rapida di restituzione di quanto ha versato (attraverso la procedura del decreto ingiuntivo), ma per riottenere le somme corrisposte, è costretto ad intraprendere un’azione civile che può rivelarsi estenuante.
Nel codice Rocco era previsto, poi, un istituto riparatorio per l’imputato assolto: la facoltà del Giudice penale di condannare al risarcimento dei danni la parte civile che avesse intrapreso e coltivato l’azione. L’attuale codice fa salvo questo potere soltanto per due formule assolutorie: il fatto non sussiste (la diffamazione non c’è) o non aver commesso il fatto (il processo si è rivolto nei confronti di un imputato estraneo). Sennonché la massima parte delle assoluzioni per il reato di diffamazione termina con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, ossia per esercizio del diritto di cronaca o di critica. Diviene perciò impossibile ottenere in sede penale un risarcimento all’imputato ingiustamente coinvolto nel processo. 5. Si profilano, dunque, inammissibili discrasie che impediscono di confrontarsi con un sistema organico. In parte dipendono dalla prassi giurisprudenziale invalsa e per altra parte dalla normativa vigente.
Entrambe potrebbero essere modificate introducendo quantomeno un tetto massimo per il risarcimento del danno morale (come previsto in alcuni progetti presentati nella scorsa legislatura), in modo da fornire al Giudice un orientamento certo (il massimo andrebbe liquidato soltanto per le offese più gravi) ed alle testate una doverosa certezza dei rischi economici cui si espongono, d’altro canto abrogando la norma che prevede la riparazione pecuniaria (ormai trasformato il danno morale in un suo duplicato); infine reintroducendo la facoltà di richiedere ed ottenere in sede penale il risarcimento dei danni prodotti dall’azione rivelatasi infondata.
Infine il legislatore postbellico si era reso conto della rilevanza della materia ed aveva imposto che fosse la triade del Tribunale collegiale a decidere su qualsiasi reato commesso con il mezzo della stampa, foss’anche la contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti (oblabile allora con il pagamento di 250.000 lire) altrimenti di competenza pretoriale.
Con la riforma del Giudice unico, il tema è stato certamente sottovalutato e la cognizione dei reati di stampa è stata relegata al Giudice monocratico. I problemi connessi al reato (e non solo a questo, ma anche alla responsabilità professionale) meritano invece un Collegio giudicante che possa, con la dialettica nella camera di consiglio, ponderare ed equilibrare le contrapposte esigenze e la complessità del giudizio.
Reintrodurre la competenza funzionale del Collegio giudicante garantirebbe la costruzione dialogica della sentenza, produrrebbe maggiore uniformità giurisprudenziale ed una più equilibrata commisurazione dei contrapposti interessi.
* L’autrice è Avvocato penalista, docente di Diritto penale comparato presso la Link Campus University of Maltha a Roma e socia di LeG.
Fonte: Micromega , 29-06-2007
* AVV. GIOVANNA CORRIAS LUCENTE ( www.studiocorriaslucente.it )
Esercita la professione dal 1980, Cassazionista dal 1997. Ha maturato vaste esperienze, giudiziarie e di consulenza nel diritto penale dell’economia, tributario, societario fallimentare, bancario, industriale dell’ambiente e dell’urbanistica, reati contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, l’incolumità pubblica, frodi comunitarie, reati informatici, reati con il mezzo della stampa ed altri mezzi di comunicazione di massa, delle telecomunicazioni, reati a tutela dei beni artistici, violazioni tributarie, colpa professionale, infortunistica, reati militari, responsabilità disciplinare, tutela di marchi e del diritto d’autore.
Dirige il settore penale della rivista ‘Il diritto dell’informazione e dell’informatica”, ed é membro del Comitato scientifico della rivista DIKE.
Ha pubblicato numerosi saggi nelle materia d’interesse (ELENCO) e la monografia “Il diritto penale dei mezzi di comunicazione di massa”, Cedam, 2000.
Ha partecipato in qualità di Relatore a convegni in materia di comunicazioni di massa, informatica, telecomunicazioni, procedura penale e reati contro la pubblica amministrazione.
E’ titolare della cattedra di Diritto penale, nella Facoltà di Scienze Politiche, Link Campus University of Malta a Roma.
Collaborazione e consulenza nei
procedimenti avanti alle Authorities ed in procedimenti civili e cautelari
per danni da reato; tutela del diritto d’autore e delle opere d’arte
classica e contemporanea; diritto penale dell’Unione Europea, patrocinio
avanti alla Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Lingue straniere: inglese, francese e spagnolo